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Gianfranco Perriera Autorentext

Gianfranco Perriera

Sulla riva

Il grido, questa mattina più stridulo, scheggia il cielo, puntuale come al solito. Tanto gelo porta raucedine, evidentemente. Fa freddo da tre giorni. Oggi ancora di più. Al freddo non mi abituo. Neppure gli altri, a quel che vedo. Lo sciabordio delle acque, all’alba, avrebbe un suono emolliente. Per la pelle e per lo spirito. Una carezza crepitante, come un fuoco che non brucia. Ma la voce del muezzin lo sovrasta. Ha la voce rasposa il muezzin. E’ giovane, ben piantato, la barba poco folta. Avrà studiato con la doverosa integrità? O sarà del tutto improvvisato? Il muezzin gode di qualche privilegio – mi diceva circa un mese fa – non possono fagli troppo male, no? Non aveva saputo nulla di chi lo ha preceduto, evidentemente. Al precedente hanno tagliato entrambe le mani e hanno preteso che si provasse nel richiamo mentre grondava sangue dai moncherini. Lo hanno scaricato in una strada di campagna, tra scarne siepi e un gregge di capre. Fosse svenuto o già morto, non si sa.

Il giovane muezzin grida più forte. Ancora un’ultima volta. Si farà scoppiare i polmoni? La preghiera a Dio vince i rumori, i livori e le furie del mondo, mi rassicurava mia nonna paterna, mentre tremavo sotto le lenzuola nelle notti di tempesta. Purché si abbia il cuore integro, scandiva increspando le labbra.

Quanti ancora tra noi, su questa riva, in attesa malgrado tutto, conservano ancora un cuore integro? Ci hanno battuti, sputato in viso, insultati e ingiuriati, maledetti, straziati fino al sangue, torturati e violentati.  Non si poteva che implorare, finché rimaneva fiato. O distribuire denaro, finché qualche moneta era sfuggita ai controlli nella fodera della giacca. Meglio, assai meglio subire violenza piuttosto che commetterla anche solo una volta, ho letto – una o due vite fa? quando ancora mi era possibile leggere – in un libro che mi aveva prestato una ragazza danese, con le lentiggini e il caschetto rosso. All’università. Belle parole, che rendevano meno amaro il mio impacciato e infruttuoso corteggiamento. Ma non pensavo certo quelle parole, mentre mi riempivano di calci alle palle. Se sei sfuggito alla morte, il corpo gonfio di ecchimosi, se hai fuggito il desiderio di lasciarti morire, puoi ancora avere il cuore integro?

L’urlatore dell’alba adesso tace. Se ne sta sulla roccia più alta a strapiombo sull’ansa. Gli altri, la maggioranza di quelli, pochi in verità, che siamo giunti a questo ennesimo appuntamento con l’esodo, gli si avvicinano. Barcollano, intirizziti. Si tengono in piedi a fatica. Alì, il ragazzetto dal labbro leporino e senza sopracciglia, sorregge il vecchio Omar, che pare assai più che ottuagenario ma, ci ha assicurato, supera appena la sessantina e vedremo come rifiorirà quando saremo giunti a destinazione. Non ci sono le sue mogli qui, ma potrebbero ben testimoniare quanto fosse prestante. Se solo non fossero morte nel deserto, ovviamente. Ha gli occhi vitrei da un pezzo, Omar. Delle mogli da una decina di giorni non ricorda il numero e nemmeno il volto.

Il vento fa sempre più i capricci. Hijab e khimar svolazzano come piccoli aquiloni ancorati a forza alla terra. Le donne si tengono strette gli abiti che si attorcigliano in forme sbilenche a mostrare impunemente le forme. Gli uomini sono già in ginocchio. A pregare, tra la piccola ridda di sassolini e foglie secche.

Le acque del fiume si increspano e s’aizzano. Già quasi mulinano. Qualche spruzzo investe i più vicini alla riva. Ho le ossa indolenzite. La spalla è incartata, il braccio non può allungarsi come vorrebbe. Batto i denti, sussulto e mi pare di avere un fischio all’orecchio. Tolgo le scarpe per sentire il freddo del terreno e fare respirare i piedi strizzati in quelle calzature due misure più piccole. Calzature sottratte all’ennesimo morto. Bagno la ferita al costato con lo straccio che ho recuperato sul camion, che ci ha condotto sino al mare. E’ una cicatrice con una sua imponenza, mi disse una volta Anni. Uno sfregio slabbrato, di un rosso più acceso sui bordi, che corre a zig zag dal costato sino al fianco sinistro. Qualche volta più a fondo, qualche altra più in superficie. Le mani che te l’hanno inferta – aveva proseguito Anni – non seppero essere abbastanza ferme, abbastanza decise. Non erano ancora del tutto abituate all’orrore? - concluse mentre la accarezzava, in punta di polpastrelli, vincendo a fatica il suo di orrore.  Era la mia prima tortura. Smettila, le dissi, lo vedo che ti fa schifo. Vorresti che mi piacesse? – mi interruppe stizzita.

Ho smesso di credere in Dio quand’ero un ragazzo. O, meglio, ho smesso, da ragazzo, di aspettarmi qualcosa da lui. Non mi aspetto che al suo essere, a cui pure tutti prima o poi gettiamo un pensiero, abbia dato anche l’esistenza.

Stava venendo sera. Una sera d’estate, quando ci vuol tempo prima che il cielo si faccia grigio. Avevo sette, forse otto, forse nove anni. Non si ricorda mai con esattezza, il trascorrere del tempo annebbia o conglutina o ingarbuglia le memorie. Mio padre aveva i capelli color dell’ebano, l’occhio malioso e le mani forti e callose di chi impasta la calce, mette le pietre una sull’altra e tira su alte facciate sino sfiorare il cielo. Mio padre aveva le mani di chi sa tenerti stretto e proteggerti da tutti i pericoli. Aveva sfilato, nel lungo corteo, contro il generale che voleva ridurre il diritto di esprimere la propria opinione. Aveva sfidato l’esercito, certo che era d’obbligo farlo quando ancora pareva possibile. Perché un figlio di Dio – diceva – non può tollerare che lo si tratti come una bestia alla catena, perché non si può essere uomo di spirito se si accetta di tacere per sempre. Era socialista mio padre e non si era risparmiato nelle battaglie per il lavoro.

Quando vedemmo le tre guardie – quelle che lavorano per il generale – il sorriso di mio padre scomparve. La stretta della sua mano sulla mia si fece una morsa. Mi fai male, pensavo sorpreso, ma non glielo dissi.  I tre sul marciapiede di fronte avevano smesso di confabulare e fissavano mio padre che si era fatto rigido come una statua. La via era larga, una decina di metri almeno ci separava dai tre sul marciapiede di fronte.  Al cenno di quello più basso e tarchiato si mossero. Andavano lenti, come svogliati e distratti. Ma avanzavano compatti, sulla stessa fila. Mio padre, mi mollò, mi spinse via. Vai, disse, corri, senza voltarti, corri. Sapevo che non dovevo discutere. Mi aveva più volte avvertito. Se tuo padre ti dice di correre, devi correre. A perdifiato. Senza domande. Senza indugi o proteste. Non pronunciai neppure un piccolo ciao. Ero già in fondo alla strada, all’incrocio con un’altra via, quando i tre si accostarono a mio padre.