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Lorenzo Monfregola Autorentext

Lorenzo Monfregola

Il Confine

Non so se sto bene o male, il buio è sia fuori sia dentro la mia macchina. Qui dentro, però, ho il cruscotto illuminato e un po’ di aria calda sparata in faccia. I fari dell’auto mi mostrano la strada: è tutta uguale, quasi sempre dritta: tengo il piede sull’acceleratore. La luna c’è, da qualche parte, qui in alto, ma delle nuvole fitte e filamentose la stanno nascondendo. Qua sulla sinistra ci sono dei campi, sono coltivati con non so cosa: patate o forse fragole o forse qualche bulbo succoso che nemmeno conosco. Qua subito sulla destra c’è un fiume: è un un fiume stretto, lungo, liscio: scorre veloce nel senso opposto a quello in cui sto guidando. Subito al di là del fiume, poi: c’è il confine. Il confine è una rete di ferro, alta, con del filo spinato tagliente attorcigliato in cima. Ogni dieci metri la rete è retta da pali di cemento verniciati in giallo. Dopo la rete c’è una striscia di terra completamente vuota e poi c’è un’altra rete, quasi uguale a quella di prima, anche questa ha del filo spinato attorcigliato in cima. Di là, però, i pali di cemento sono verniciati in arancione. Non è che il confine io lo veda così bene adesso, con questo buio. Il confine me lo sono visto per bene stamattina, arrivando in Città. Il confine l’ho visto stando sul ponte di acciaio che in questi giorni tutti guardano in televisione. Il ponte di acciaio e cemento armato: il ponte con le sbarre, gli spessi fili elettrici avvinghiati come pitoni, i tetraedri in plastica dagli spigoli aguzzi, i grossi cartelli catarifrangenti con sopra scritto: “Alt”, “Achtung”, “Farsi riconoscere!”

Dalle parti del ponte, oggi a mezzogiorno, era pieno zeppo di giornalisti come me. Sembrava che l’invasione di cui parlano tanto quelli che non vogliono gli immigrati fosse in realtà fatta da gente come noi. Telecamere, macchine fotografiche, microfoni, copri-microfono, tizi che cercano una storia, 1-2-3 ci siamo, in onda: le vittime, i carnefici, l’odio, la speranza, la vergogna, le spine dorsali, i soldi, i muscoli, gli elettrodi, il sudore: tutti qui, tutto qui. Ho resistito per qualche ora, poi ho capito che i migranti non cercheranno più di attraversare dal ponte. Furgoni tv, camionette della polizia, lampeggianti gialli, intermittenze viola-rosse, gente che canta per la solidarietà, missili anticarro, gente che vuole fermare l’invasione: dalle parti del ponte c’è un grumo di umani così grosso che è visibile a 10 km di distanza. Se c’è una cosa che ho imparato facendo questo mestiere è che dopo 24 ore diventa sempre tutto troppo saturo. E allora bisogna scappare: dove tutto è saturo non succede mai niente di interessante. Così stanotte mi faccio da solo la strada lungo il confine, in macchina, verso nord. Ché magari qualcosa succede: una foto la faccio, un articolo lo tiro fuori. Magari trovo dei poliziotti che pattugliano, magari becco dei nazisti che girano sognando di poter aggredire delle persone, magari incappo in qualcuno che vuole assolutamente aiutare chi cerca di attraversare, magari incontro davvero dei migranti che sono riusciti a bucare entrambe le reti del confine.

Vado un po’ più piano: in macchina adesso fa caldo. Le nuvole si sono d’un tratto sfilacciate quasi completamente e hanno liberato la luna: ora il satellite è qui, proprio sopra la strada: è una luna quasi piena, pericolosamente vicina. Schiaccio il tasto per tirare giù il finestrino, non il mio, quello dal lato del passeggero, quello dal lato del fiume. Il suono dello scorrere dell’acqua si intreccia con quello del motore dell’auto. Passa un secondo, passano dieci secondi. Passano 17 secondi, 207 secondi, 3007 secondi. Passano 7039 secondi. Continuo a guidare e guidare: guardo lo smartphone: si è spento completamente, non so perché. Anche le luci del cruscotto si sono fatte molto più deboli. Osservo meglio il fiume, tenendo le mani sul volante, ma allungandomi un po’ in avanti: l’acqua è ora di un colore praticamente argentato. Sì, proprio tanto: l’acqua è sempre più argentata. La luna illumina tutto, ma soprattutto il fiume: il fiume è splendente: ogni secondo che passa sta diventando più vivo: oltre la fisica, troppo. Guardo al di là del fascio di luce dei miei fari: vedo ancora un bel po’ di strada, ma è il fiume quello che posso vedere meglio di qualunque altra cosa. Anche dove la strada viene di nuovo inghiottita dal buio posso invece vedere tutto il fiume: per centinaia di metri: il fiume è un serpente di neon, con squame di seta oleosa e luminescente: sembra il nervo infiammato di un corpo pronto a riemergere. Adesso fermo la macchina, voglio vederlo da vicino.

Non c’è uno spiazzo per posteggiare, l’acqua è a pochi metri, mi accosto semplicemente il più possibile sul bordo della strada. Spengo il motore, la luce interna dell’auto non si accende automaticamente: non funziona più niente. Scendo: fa freddo, molto freddo, mi alito subito sulle mani per scaldarmi. Faccio 5 passi sull’asfalto e sono già sull’erba, faccio altri 7 passi e sono dalla riva. Il fiume scorre pochi centimetri sotto al bordo degli argini. Sono argini di fango compatto e levigato. L’argento dell’acqua è ormai fosforescente, il forte suono della corrente è diventato completamente metallico. Mi inginocchio, respiro, mi tiro su la manica della giacca: infilo la mia mano destra nell’acqua: è calda! E’ un calore elettrostatico che mi risale fino al gomito, fino alla gola. Avrei giurato che l’acqua fosse gelida, invece no: è caldissima. Mi piace: è strano: è bello. Alzo lo sguardo, tenendo la mano immersa nella corrente: al di là del fiume c’è sempre il confine. Il confine segue il fiume senza tregua, per chilometri e chilometri e chilometri: il confine è una ferita laterale del fiume: una ferita incisa o cucita con del filo spinato elicoidale. Tiro la mano fuori dall’acqua. La osservo: è piena di gocce vivissime e argentate: l’argento è l’essenza del liquido, non dipende certo solo dal riflesso della luna. Alcune gocce mi cadono sui pantaloni. Raccolgo dell’altra acqua con la mano e la faccio ricadere nel fiume. Vedo che le gocce che mi sono cadute sui pantaloni sono diventate piccole macchie elettrofluorescenti. Ora con la coda dell’occhio vedo delle chiazze di fiume argentato che invece spruzzano fuori dagli argini. Poi le macchie vanno veloci verso la mia macchina: sbattono contro l’auto, sento un colpo. Che diavolo è!? Mi tiro su dall’erba umida, corro verso la macchina, dalla mia parte, quella del volante. Apro la portiera: ecco le chiazze d’argento che si muovono senza sosta nell’auto, sul sedile del passeggero. Hey! Sto per iniziare a urlare. Cos’è questa roba!? Ora urlo. Cerco di controllarmi, cerco di vedere meglio: qualcuno. Sì, è qualcuno: sul sedile. Mi infilo di più nella macchina, mi appoggio al volante: sì, è una persona, è un uomo: è seduto dentro la macchina. E’ una persona che trema: è tutta coperta di acqua argentata, ha macchie fosforescenti ovunque: sulla testa, sui vestiti, sulle braccia, sulla bocca. E’ un uomo: è un migrante, è un poliziotto, è uno dei nazisti, è un giornalista, non lo so, è qualcuno. Non mi guarda nemmeno: sta seduto stringendosi le mani fra le cosce, la sua testa e il suo busto si muovono a scatti, inspira ed espira con forza: è un uomo che continua a tremare.